Wall Street: che sta succedendo? E se si scoprisse che …
Ormai da tempo quanto sta accadendo sulla Borsa americana lascia più di qualche dubbio, ed allora quel che è successo venerdì 8 maggio non sarebbe altro che la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Facciamo un po’ di cronistoria. Dal marzo 2009, culmine del crollo borsistico successivo allo scoppio della bolla cosiddetta dei mutui subprime, o meglio, sarebbe più corretto dire della bolla finanziaria, parte il trend rialzista.
Quattro anni dopo, siamo quindi nel marzo del 2013, tutte le perdite erano state azzerate, gli indici americani erano quindi tornati sui massimi del 2007 ossia quelli pre-crisi, e non era una cosa da poco, perché quelli erano livelli considerati da tutti “da bolla”.
Il fatto è che il mercato non ha fatto nemmeno una piega ed ha continuato a salire fino ai giorni nostri, e per gli indici di Borsa statunitensi sei anni (anzi di più) di salita pressoché continua da molti sono ritenuti “un’anomalia”.
Tanto più che nel frattempo oltre a Dow Jones e S&P500 addirittura il Nasdaq era arrivato a superare i massimi storici “inavvicinabili” del marzo 2000, quei livelli visti in una delle più impressionanti bolle della storia.
Ed allora occorre così capire a cosa si deve questo straordinario e duraturo periodo rialzista. La risposta naturalmente la conoscono tutti: l’intervento pubblico nell’economia, dal momento in cui è scoppiata la crisi, è stato assolutamente senza precedenti, i tassi sono stati immediatamente azzerati e, visto che ciò non bastava, l’Amministrazione Obama ha enormemente aumentato il debito pubblico, ma anche questo non era sufficiente, per cui è intervenuta la Banca Centrale, ossia la Federal Reserve che ha inondato il sistema di una quantità impressionante di liquidità.
Con interventi così massicci qualche risultato si è ottenuto, ma non si è mai riavviata una crescita forte e sostenibile. Per questo motivo è stato davvero difficile arrivare a sospendere queste immissioni di liquidità nel sistema (avvenute in più occasioni con operazioni di finanza straordinaria denominate Quantitative easing), ed a tutt’oggi non si è ancora riusciti ad innalzare neppure di un quarto di punto i tassi di interesse.
E siamo arrivati al punto che il mercato reagiva in maniera opposta ai dati macroeconomici, scendendo quando arrivavano notizie positive (temendo un più rapido inizio di una politica monetaria più restrittiva) e salendo in presenza di dati negativi che allontanavano il “pericolo” di un innalzamento dei tassi.
Questo “mondo all’incontrario”, in cui si festeggiano le brutte notizie, è chiaramente paradossale, però, ormai c’eravamo abituati, per questo ora vi metto in guardia rispetto a quanto avvenuto venerdì scorso 8 maggio.
Il Dipartimento del Lavoro Usa ha comunicato che nel mese di aprile gli occupati nei settori non agricoli erano aumentati di 223.000 unità, quindi un dato superiore alle previsioni (218.000 unità).
Ebbene il mercato ha reagito in maniera entusiasta, i listini di Borsa sono schizzati all’insù, non si può parlare di semplice e rinnovato ottimismo, ma di eccessiva e immotivata euforia. Perché è accaduto tutto questo?
Innanzitutto occorre sottolineare che il dato, seppur migliore delle attese, non è risultato assolutamente imprevedibile, dopotutto sono solo 5.000 posti di lavoro in più, ed allora non è per nulla semplice giustificare quanto accaduto sui mercati.
Si potrebbe pensare che l’euforia sia dovuta più che alla notizia positiva allo “scampato pericolo”, da tempo, infatti, sono aumenti (in termini numerici, ma anche di “qualità”) gli analisti che prevedono uno storno anche abbastanza consistente dei mercati borsistici (e non solo).
Ma anche questa giustificazione non mi convince in quanto ciò che è accaduto è qualcosa di “improvviso” quindi ha motivazioni “dirette”, non di sentiment.
Alcuni hanno poi avanzato una teoria abbastanza “strana”. Il mercato avrebbe reagito in maniera così entusiasta perché il dato positivo che riguardava l’occupazione (oltre ai posti di lavoro creati è sceso pure il tasso di disoccupazione) non sarebbe in relazione ad un eventuale aumento dei tassi.
In pratica: l’economia migliora, ma i tassi resteranno a zero, ed ancora per molto tempo.
E perché? Viene da chiedersi.
Ricordiamo tutti, o quasi, che il predecessore della Yellen a capo della Fed, Ben Bernanke, negli scorsi anni aveva collegato l’aumento dei tassi al conseguimento di certi obiettivi di carattere macroeconomico, e fra questi il raggiungimento di un tasso di disoccupazione del 6,5% (nel momento in cui Bernanke annunciava queste cose la percentuale dei senza lavoro negli Usa era ben superiore).
Ebbene ora siamo al 5,4% (almeno ufficialmente) quindi ad un livello estremamente migliore rispetto all’obiettivo già ambizioso che si era posto Bernanke e di aumento dei tassi neppure l’ombra. Ed allora occorre necessariamente chiedersi, cosa sarebbe accaduto se negli Usa fossero stati aumentati i tassi quando la disoccupazione era scesa al 6,5%?
E perché non si rialzano neppure ora in presenza di dati così positivi?
Non ci resta quindi che porsi la domanda fatidica:
I dati macroeconomici che ci vengono comunicati … sono reali? O viviamo in un mondo in cui tutto è … virtuale?
Giancarlo Marcotti per Finanza In Chiaro